3 città in una, lo strano fascino di Kuala Lumpur

La capitale della Malaysia è una metropoli recente: qui convivono cinesi, indiani e malesi, tra quartieri storici, grattacieli e giungla.

Kuala lumpur city skyline

“Ignoriamo, più di ogni altra cosa, le divisioni che esistono fra noi. Viviamo in un paese governato da politiche razziali, ma questo a scuola non sembra importare. È vero, ci sono i gruppetti in cui domina un’etnia anziché un’altra – i ragazzi cinesi giocano a basket, gli indiani a hockey e la squadra di football della scuola è capeggiata dai rockettari malesi che ritagliano dalle riviste foto dei Metallica e le incollano sui libri di scuola. Ma a lezione e durante le pause, il misto di razze è un sereno miscuglio di carnagioni e lingue, un patois di inglese, malese e cantonese.

(…) in genere ci amalgamiamo in un’unica massa e tiriamo avanti senza drammi. Passiamo l’intervallo insieme, siamo quantomeno cordiali, semplicemente ignoriamo le profonde divisioni che ci separano”.




È la Kuala Lumpur degli anni 80, quella della sua adolescenza nelle scuole pubbliche malaysiane, che Tash Aw racconta in Stranieri su un molo (2017, ADD Editore), prezioso memoir concentrato su quei temi di identità, lingua, migrazione e appartenenza che hanno segnato le vicende personali dell’autore. Aw è malaysiano e cinese, nipote di nonni giunti nelle terre calde e fertili di quello che in Cina chiamano Nanyang – il Sudest asiatico, letteralmente “oceano meridionale” – negli anni ’20 del secolo scorso, fuggiti da un paese povero e in piena guerra civile.

Quello che traccia è però un ritratto perfetto anche della Kuala Lumpur odierna, nel frattempo diventata alpha city, metropoli di rilevanza mondiale e hub economico in continua crescita. Oltre che una città sempre meno cinese e più malese (termine usato per indicare i popoli originari della zona, da non confondere con malaysiano, ovvero cittadino della Malaysia in generale, e che quindi può essere di etnia malese, cinese, indiana o altro), secondo un trend demografico che non accenna a fermarsi, e che pare destinato se non a ribaltare le proporzioni del 1857, ad andarci vicino.

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Nell’anno della sua nascita, Kuala Lumpur è un piccolo villaggio abitato quasi solo da cinesi, fondato da prospettori minerari ingaggiati dai governanti delle città sulla costa occidentale, alla ricerca di nuove miniere di stagno nella valle del fiume Klang. Sta alla confluenza fra lo stesso Klang e il Gombak, che arriva da nord, e il suo nome significa appunto “confluenza fangosa” (il che fa pensare che i due corsi d’acqua non siano mai stati molto diversi dai rigagnoli marroni di oggi, che scorrono quasi nascosti alla vista in una città che sostanzialmente li ignora, ed è cresciuta dal punto di vista urbanistico e sociale come se non ci fossero).



Solo 150 anni fa, dunque, Kuala Lumpur si presenta come un minuscolo avamposto in piena giungla, pura frontiera non troppo diversa dal far west hollywoodiano: saloon e bordelli, mercanti e fuorilegge, le Triadi cinesi e le guerre fra sultani come ciliegina. Si scava poco più a monte, ad Ampang, oggi quartiere di ambasciate, ma da Kuala Lumpur in avanti il fiume non è navigabile, ed è soprattutto questa la fortuna della futura capitale. I minatori trovano lì tutto ciò che serve, il commercio fiorisce e l’insediamento si gonfia. Lo sviluppo è veloce, costante, gestito dai leader della comunità cinese ai quali i capi locali hanno delegato il governo del posto.

Nel 1874 il controllo passa ai britannici, che sei anni dopo vi trasferiscono la sede della loro amministrazione coloniale. Cominciano ad arrivare anche lavoratori indiani e malesi, e nel 1880 Kuala Lumpur diventa capitale del sultanato del Selangor. Nel 1884 gli abitanti sono 4.500, 20.000 nel 1890, 80.000 nel 1920 e oltre 110.000 nel 1931, e l’espansione demografica si accompagna naturalmente a quella fisica, con la giungla che cede il passo alle case e un agglomerato quasi spontaneo che diventa città vera e propria. Cambiano il nome e i confini della nazione (dal 1895 Stati Malesi Federati, dal 1946 Unione Malese, dal 1948 Federazione della Malesia e dal 1963 l’attuale Malaysia, con indipendenza dal Regno Unito dichiarata il 31 agosto 1957) ma non il ruolo sempre più centrale della sua capitale in crescita continua. Ruolo anche simbolico: la capitale della Malaysia post-coloniale può essere una città sostanzialmente cinese?

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Fra lavori nella pubblica amministrazione, migrazioni dalla campagna alla città e incorporamento delle circostanti zone rurali, nel secondo dopoguerra i cittadini malesi aumentano di anno in anno per numero e peso percentuale. Ma restano minoritari (15% nel 1947) e svantaggiati economicamente, nonostante il riconoscimento di maggiori diritti e benefici economici nella nuova Costituzione. Nel 1958 il reddito medio di un cinese è più del doppio di quello di un malese, e quello di un indiano ci va vicino. Dieci anni dopo, le proporzioni sono addirittura leggermente aumentate.

Tensioni? Meno di quanto ci si aspetterebbe, viste le premesse. Le esplosioni di violenza sono rare ma significative. Come nel 1964, quando duri scontri portano all’uscita dalla Federazione dell’ancora più cinese Singapore. O nel 1969, con il cosiddetto “incidente del 13 maggio” proprio a Kuala Lumpur, quando in un infuocato clima post-elettorale si scatenano pogrom incrociati che fanno, a seconda delle fonti, dai 200 agli 800 morti, soprattutto cinesi. Seguono dimissioni del primo ministro, stato d’emergenza, sospensione del parlamento e due anni di governo provvisorio, ma soprattutto la New Economic Policy; ovvero, un netto implemento delle politiche di affirmative action di cui sopra. Tanto per calmare un po’ gli animi, verrebbe da dire, anche se le motivazioni ufficiali sono la riduzione delle disuguaglianze economiche e sociali, e l’incoraggiamento di un sentimento nazionalista inclusivo e attento alle varie anime di una società sempre più multietnica.

Sarà anche per questo che a Kuala Lumpur i malesi continuano ad aumentare, e i cinesi e gli indiani a diminuire: 33% i primi, 52% i secondi e 14% i terzi sul milione scarso di abitanti del 1980; 37%, 46% e 11% rispettivamente sul milione e 200.000 del 1991; 39%, 43% e 10% sul milione e 400.000 del 2000. Fino allo storico sorpasso fatto segnare dal censimento del 2010, 45.9% di malesi e 43.2% di cinesi (e 10.3% di indiani) su un milione e 800.000 abitanti. Sarà anche per questo, o nonostante questo, che Tash Aw e i suoi compagni di scuola scoprono a un certo punto di essere separati tanto dalle linee di demarcazione etnica con cui sono cresciuti, quanto dalle care vecchie diseguaglianze economiche. Continuando a vivere ognuno la propria vita ignorando cordialmente gli altri, appunto. Mostrandosi in questo veri figli di una città in cui i matrimoni misti sono l’eccezione, e le tre comunità sembrano intrecciarsi senza toccarsi, in un’aria di differenze culturali ineludibili (difficile trovare un malese musulmano in giro per bar a bere alcolici la sera, ad esempio) e razzismo reciproco mai troppo esplicito. Andando a comporre un esempio di multiculturalità un po’ coatta, che funziona perché ognuno si fa i fatti suoi.

Di quartieri caratterizzati su base etnica ne esistono, dall’immancabile Chinatown (cosa abbastanza bizzarra, peraltro, in una città fondata da cinesi e a maggioranza cinese fino a pochi anni fa) alla più autentica Little India di Brickfields, fino all’aria da paesino malese fermo nel tempo ed etnicamente puro di Kampung Baru: miniera d’oro per immobiliaristi a pochi metri dalla skyline avveniristica del Golden Triangle, enclave frazionata in una miriade di lotti e proprietari che resiste dagli anni 70 ai piani di sviluppo, ma che pare abbia ormai ceduto anch’essa alla modernizzazione KL style a base di grattacieli, condomini di lusso ed estetica tradizionale recuperata e patinata. Il resto della città è misto, invece, come decisamente misto e senza un disegno apparente è il suo caotico paesaggio urbano.

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C’è la modernità appena citata: centri commerciali enormi uno dietro l’altro, torri di vetro da 70 piani, la monorotaia, intere città satellite pianificate e create dal nulla come Putrajaya (dal 1999 capitale amministrativa dello Stato) o Cyberjaya (che è esattamente quello che sembra, un progetto di Silicon Valley locale con nome buffo), entrambe parte di una zona economica speciale dedicata alle nuove tecnologie chiamata MSC (Multimedia Super Corridor). Ci sono i cantieri, tantissimi e in continuo spostamento, ogni volta piazzati a rendere irriconoscibile un punto diverso della città. C’è la sciatteria malandata delle grandi metropoli asiatiche, condomini brutti e anneriti, cavi a vista, edifici pubblici tristi, altri centri commerciali meno scintillanti. C’è la Kuala Lumpur di una volta, shophouse tradizionali e mercati, cibo di strada fantastico da consumare di fronte a carretti minuscoli o seduti fra la folla di un kopitiam, antenato delle food court globalizzate.

E c’è lei, la giungla. Che in un insediamento umano così recente fa ancora sentire la sua presenza, nonostante l’urbanizzazione ampia e poco regolamentata. La si vede dalle finestre ai piani alti degli alberghi, incombere sulla capitale dalle montagne circostanti. La si tocca con mano a Bukit Nanas, il luogo in cui si stabilirono i primi abitanti malesi di Kuala Lumpur e dal quale ora spuntano i 421 metri della KL Tower, ma che ancora oggi custodisce chiusi fra i grattacieli gli ultimi nove ettari di foresta vergine rimasti in centro, scimmie comprese. La si respira nei Lake Gardens, la grande area verde nella parte occidentale della città, sede di una lunga serie di giardini a tema (palme, arte topiaria, erbario, felci, alberi da frutto rari, alberi della foresta, ibischi, orchidee, cervi, capre) e di due gioielli come il Bird Park e il Butterfly Park.

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Il secondo soprattutto, a dispetto dell’aria dimessa da luogo abbandonato a sé stesso, aperto più di vent’anni fa e mai toccato da allora, è un’esperienza imperdibile. Un luogo che è metà giardino botanico e metà labirinto, in cui decine di piante diverse occupano ogni centimetro di spazio e l’umidità percepita quadruplica, e in pieno sovraccarico sensoriale si scivola in uno stato ipnotico, in cui le oltre 5.000 farfalle di ogni genere che volano intorno quasi passano in secondo piano. Per poi svegliarsi di soprassalto entrando nelle sale che chiudono la visita, condizionatori oltre la sopportazione umana e teche su teche di insetti da tutto il Sudest asiatico, enormi, pazzeschi.

La giungla la si incontra anche per caso, quando un gruppo di scimmie arrivate da chissà dove decide di colonizzare un’intera area di Bird Park diventandone quasi l’attrazione principale, quando un varano attraversa la strada al taxi che porta a casa, quando a fine corsa c’è un’iguana che passeggia in giardino. Non sarà bella come Bangkok o Singapore, Kuala Lumpur, ma volete mettere?







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